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lunedì 4 dicembre 2017

El dia internacional del tango



L’11 dicembre si celebra in tutto il mondo “el dia internacional del tango” per ricordare la nascita di due grandi del tango:”La Voz” (Carlos Gardel, nato l’11 dicembre del 1890) e ”La Música” (Julio De Caro, nato l’11 dicembre del 1899).
Una data che,  per le parole del suo creatore Ben Molar, Académico de la Academia Nacional del Tango e Académico de la Academia Porteña del Lunfardo, venne pensata in modo piuttosto singolare.
Era la notte del 1965. Ben Molar si stava incamminando verso la casa di Julio De Caro per festeggiarne il 66° compleanno, quando gli venne l’idea: associò la data di nascita di Gardel con quella di De Caro,  penso’ che fosse il caso di ricordarli entrambi con una festa.
La propose al Segretario della Cultura della Città di Buenos Aires, Ricardo Freixa, il quale non era contrario ma gli chiese che la proposta venisse sostenuta dalle Istituzioni del Tango , Enti, Società, Associazioni.
Ben Molar raccolse presto le adesioni consegnò l’elenco richiesto con le firme di:

    Sadaic (Sociedad Argentina de Autores y Compositores de Musica)
    Asociación Amigos de la Calle Corrientes
    Asociación Argentina de Actores
    Casa del Teatro Fundación Banco Mercantil
    La Gardeliana Radio Rivadavia
    Sade (Sociedad Argentina de Escritores)
    Sindacato Argentino de Musicos
    Unión Argentina de artistas de Variedades
    Academia Porteña del Lunfardo
    Fundación Banco Mercantil

Nonostante le firme dei prestigiosi Enti e le ripetute sollecitazioni di Ben Molar, Ricardo Freixà temporeggiò fino a quando, nell’inverno del 1977, a poche settimane dall’11 dicembre, Ben Molar per l’ennesima volta chiese a Ricardo Freixà un incontro in occasione del quale gli intimò una specie di ultimatum:
L’11 dicembre di quello stesso anno avrebbe autonomamente organizzato un grande Festival del Tango al Luna Park per proclamare El Dia del Tango davanti alle televisioni e ai giornali.

Il Luna Park è storicamente il tempio del pugilato e il gestore, una sorta di mito, Tito Lectoure, conosciuto in tutto il mondo come “Tito” si mostrò favorevole all’iniziativa di Molar, nonostante lo scetticismo sui numeri, ipotizzava una presenza di non più di 2-3 mila persone a fronte della capienza dello stadio di 20 mila posti.
Il 29 novembre del 1977 a due ore di scadenza dall’ultimatum si produsse il miracolo, ossia, la promulgazione del Decreto, anelato per tanti anni.
Così il 29 novembre del 1977 Ben Molar ricevette la comunicazione della firma del decreto Nº 5830/77 della Municipalidad de la Ciudad de Buenos Aires con il quale veniva istituito “el dia del tango”.
L’11 dicembre venne organizzato il festival ed il successo fu strepitoso. Schierate le orchestre più celebri, i cantanti più famosi, i migliori ballerini. Julio De Caro, emozionato per lo scenario ricevette l’applauso di quasi 15 mila persone che cantavano Feliz cumpleaño per i suoi 78 anni.
Non accontentandosi del dia del tango, Ben Molar pretese qualcosa di più: chiese El Dia Nacional del Tango, anche per evitare che ogni città o ogni provincia proclamasse una data diversa dall’altra.
Ne parlò al dottor Raúl Alberto Casal, Segretario di Stato della Cultura de la Nacion che gli chiese a sua volta di organizzare uno spettacolo di tango al Teatro Cervantes. Ben Molar accettò in cambio del Decreto. Lo spettacolo, simile a quello del Luna Park, si concretizzò il 23 dicembre del 1977.
Nel bel mezzo della serata si accesero tutte le luci e Ben Molar proclamò al microfono l’11 dicembre “Dia Nacional del Tango”, oggi dia internacional del tango, per dichiarazione del Governo con decreto n° 3781/77 del 19 dicembre.
Fonte: BsTango di Nicola De Concilio

giovedì 2 febbraio 2017

El Tano Fiorentino... "El" cantor de orquesta


Fiorentino nasce a Buenos Aires, nel quartiere di San Telmo, il 25 settembre 1905 e muore in un incidente a Mendoza l'11 settembre 1953. E 'stato per 25 anni cantante professionista.
Si disse che era nato cantante d'orchestra, e forse era proprio così, perché precedentemente c'erano stati tanti cantanti (Charlo, Irusta, Roberto Diaz), ma nessuno di essi formava parte di un'orchestra. Ai tempi dell'estribillista il nome del cantate non veniva neanche stampato sull'etichetta del disco.....

Fiore aveva un fratello violinista
-Vicente- ed egli stesso era un fior di bandoneonista. Nel 1927 suonava il bandoneon nell'orchestra che Juan D 'Arienzo faceva esibire al "Chantecler" e, qualche volta, in particolari momenti della serata si esibiva cantando il ritornello.
L'anno successivo era in quella di Juan Carlos Cobian: con essa, l'11 luglio dello stesso anno ha registrato il tango Me querés, dello stesso Cobian.
A quel punto aveva già registrato con Francisco Canaro e di tanto in tanto con Roberto Firpo. Nella sua carriera ha fatto parte anche dell'orchestra di Julio Pollero, di quella di Pedro Maffia, della Tipica Victor e, naturalmente, di quella di suo fratello. Nel 1931 si avventurò a Berlino con Los Ases Tango, come bandoneonista ed estribillista, ma rientrò in patria frettolosamente dopo otto mesi molto duri sul piano economico, ma soprattutto per le tensioni sociali derivanti dai contrasti tra Adolf Hitler e gli oppressori della Repubblica di Weimar.
Tornato a Buenos Aires entrò
nell'orchestra di Roberto Zerrillo come cantor estribillista, successivamente si presentò come solista cantando con i poeti di Tango (Héctor María Artola, Miguel Nijenshon, Miguel Bonano, Antonio Rodio) e con Ricardo Malerba.

Siamo giunti al 1938. Entra in scena Aníbal Troilo, che non era stato in grado di sedurre Rodriguez Lesende, che a quel tempo era il cantante più gettonato, a cantare nella sua nuova orchestra, e lo chiama al suo fianco. Aveva 33 anni, l'età in cui Gardel aveva abbracciato definitivamente il tango come sua forma di espressione artistica. 
Alcuni dicono che il concetto di cantor de orquesta sia nato il giorno in cui Fiorentino ha cantato il suo primo tango con Troilo e Orlando Goñi. Catullo Castillo stigmatizzò quella triade memorabile in versi favolosi e ormai dimenticati: «Orlando Goñi te grita desde la bruma de un piano: / Vení, Francisco, que ahora sos vos el que paga el gasto. / Y vuelven horas lejanas y es el mismo Tibidabo / y está Pichuco en sus cosas y están hablando despacio / los duendes que hay en la noche cuando es Dios quien copa el mazo».
 
Fiore rimase con Troilo per cinque anni. E' già noto che Pichuco, dopo un disco iniziale (Come il faut- Tinta verde, 7 marzo 1938), tardò esattamente tre anni per tornare a uno studio di registrazione. Il 4 marzo 1941, Fiore registrò la prima versione di Yo soy el tango di 
Homero Exposito e Domingo Federico. Nel corso della sua epica esperienza con Troilo produsse altre opere memorabili: Tinta roja, Malena, Garúa, ma nessuna così profonda, così tango, come Pa 'Que Bailen Los Muchachos (Troilo e Cadicamo 16 aprile 1942). Mai il tango è stato espresso con tanta bravura da una voce che non apparteneva al tango, che non sembrava impregnata di tabacco e alcol, che, come per Alberto Gómez e Ignacio Corsini, sarebbe stata più adatta ad un coro celeste che a un cabaret. Chi sa che filtro miracoloso gli avevano dato da bere Goñi e Troilo a quel bandoneonista diventato cantante che è stato definito il miglior cantante d'orchestra. 

Dopo la parentesi troliana c'è veramente poco da raccontare. Emigrò con Piazzolla dai ranghi di Troilo e formò la propria orchestra diretta da quel Piazzolla che forse aveva troppa fretta di svincolarsi da Troilo. Durò poco, successivamente si unì a José Basso, con Alberto Mancione. Lo studioso Nicholas Lefcovich ha scritto: "Prima di Troilo, nulla; dopo Troilo, niente. Solo sessanta registrazioni con Pichuco gli hanno dato il diritto a far parte della  storia del nostro canzoniere porteño". "D'accord". 

Si dice che giorni prima dell'incidente, Fiore avesse detto ad un amico: "Gardel se ne è andato al momento giusto. Io, invece, ho perso il treno. " Né Gardel, nè Fiore conquistarono la fama con la sua morte. Quando sono morti erano già famosi, avevano già conquistato l'eternità tecnologica della voce registrata. Gardel è stato più sfortunato perché quasi non ha avuto il tempo di godere ascoltandosi nel disco.

sabato 9 luglio 2016

Tango e società: la Storia in un abbraccio di Mariagiovanna Ferrante



Cari lettori,
oggi abbiamo l'onore di ospitare un contributo "dotto" di Mariagiovanna Ferrante che analizza brevemente il particolare contesto socio-culturale dell'Argentina degli anni '50, ricordando al lettore quanto certe idee sul tango siano ancora attuali.
Grazie Mariagiovanna


Tango. Patrimonio dell’Unesco, danza passionale e/o triste, terapia fatta di abbracci. Negli ultimi anni questo ballo è stato interpretato in diversi modi, tutti più o meno validi, tutti più o meno vicini agli effetti che esso ha sull’individuo e, nel complesso, sulla comunità che vi si muove intorno. È, questo, il tempo in cui il tango, pur essendo definito un “ballo sociale”, tende a diventare il metro attraverso cui valutare “chi sa fare cosa”. In qualche milonga si assiste a vere e proprie performances di ballerini i quali, più che pensare ad abbracciarsi, sanno che qualcuno li sta guardando. Eppure, in milonga si va per condividere delle emozioni di coppia. Che sia una coppia reale o quella che si forma per dieci minuti. Il tempo di sognare. È il tempo dei raduni, dei festivals, delle maratone per quegli eletti che inseguono date e organizzatori per avere il privilegio di essere ammessi nei vari templi della bravura “senza se e senza ma”. Eppure….Eppure ogni tanto bisognerebbe tornare alle origini. Non si tratta di essere reazionari o laudatores temporis acti, ma occorrerebbe non dimenticare come nasce il tango e quale messaggio esso ha veicolato.
Esso non deve essere considerato semplicemente uno “svago”, o una “moda” che sta impazzando negli ultimi anni. Si tratta, piuttosto, del prodotto di un fenomeno di rilevante portata, all’interno del quale c’è la storia di individui che hanno dovuto affrontare la ricerca di una nuova patria e di una nuova identità. Occorrerebbe riflettere sui periodi più importanti dell’ondata migratoria (1810-1870 e 1876-1976), in cui, con motivi diversi e modalità differenti di arrivo, si spostò, secondo il rapporto della Caritas migrantes (2009), una quantità di persone superiore alla popolazione italiana al momento dell’unità nazionale. Gli italiani in Argentina affrontarono innumerevoli difficoltà, da quelle legate al mero trasporto (si viaggiava in condizioni spesso disumane, in situazioni di scarsa igiene e con facile insorgenza di malattie), alla diffidenza delle élites locali, che vedevano negli stranieri dei fattori di imbarbarimento, piuttosto che degli incentivi al progresso come prefigurato dai governi di Rivadavia o di Avellaneda (1876: legge sull’immigrazione). Si trattava di giudizi arbitrari, in virtù dei quali i più sospettati di essere dei criminali furono i meridionali, in particolare i napoletani. Questi furono oggetto di diffidenza, ma anche di dileggio da parte degli argentini. Basti pensare che nel poema epico Martin Fierro, presentato dal suo autore José Hernandez nel 1872, vi era una caricatura del napoletano, visto come piagnucolone e mollaccione, in netta contrapposizione con le virtù del gaucho. Quest’ultimo era simbolo di coraggio, generosità amicizia, mentre il “gringo” era rappresentato dal “papolitano”. Dei parassiti, insomma. Eppure…Eppure tra i nuovi arrivati e le masse della popolazione che era tenuta fuori dai giochi di potere, si creò una fusione tale che gli italiani rinacquero come argentini, e che i figli degli italiani dimenticarono presto le loro origini per abbracciare una nuova nazionalità. In fuga dai paesi d’origine per le persecuzioni o per le condizioni di miseria, al loro arrivo in un mondo sconosciuto e inospitale anche dal punto di vista politico, molti emigrati furono una sorta di “lievito sociale”, organizzatori e promotori di lotte contro la sopraffazione dei lavoratori. L’idea anarchica fece breccia nel proletariato italiano tutt’altro che rassegnato. I vincoli etnici tra lavoratori e gruppi intellettuali facilitarono la politicizzazione dei primi, senza che l’identità nazionale rimasta molto forte abbia escluso un’altrettanto solida “coscienza di classe”. La presenza degli italiani si fece sentire anche nella lingua: l’idioma di Buenos Aires fu fortemente contaminato dal cocoliche (una mescolanza a tutti gli effetti tra l’italiano dialettale, con il lessico gauchesco della Pampa e il castigliano rioplatense) e dal lunfardo (la lingua dei postriboli e degli emarginati, anch’essa piena di italianismi). Da quest’ultimo nasce il linguaggio del tango. La danza nacque in quel crogiolo culturale che è il Rio de la Plata, dove si incontrano culture e livelli sociali profondamente diversi fra loro. Tra questi, gli italiani portarono la loro passione musicale e l’attitudine al canto. La loro situazione non era semplice: la miseria e la disperazione facevano parte della quotidianità. La patria perduta, la famiglia abbandonata, in particolare la madre e moglie, sono sempre più dolorosi per l'uomo solo in Buenos Aires. Come ha sostenuto Sabato, "La crescita violenta e tumultuosa Buenos Aires, la speranza di milioni di esseri umani e la loro frustrazione, la nostalgia per la patria lontana, il risentimento dei nativi contro l'invasione, la sensazione di insicurezza e fragilità in un mondo trasformato vertiginosamente (...) Tutto ciò che si manifesta nella metafisica di tango”.

Il Tango nella sua musica, nelle sue parole e nei suoi movimenti riflette questo disagio. In questo contesto, appare esemplare la storia di Enrique Santos Discèpolo (figlio di un napoletano), colui al quale si deve la definizione di tango come “pensiero triste che si balla”. Definizione, questa, che ha avuto una sorte un po’ infelice, essendo stata relegata a un’interpretazione letterale e abbastanza semplificata, decontestualizzata. A lui si devono testi come Vachaché (¿Qué vachaché? /Hoy ya murió el criterio!/Vale Jesús lo mismo que el ladrón...), Yira Yira(Veràs che todo es mentira…) e Camabalanche (Todo es igual…Nada es mejor…), attraverso i quali il decennio infame, attraversato da colpi di stato e lotte proletarie, venne messo a nudo, nonostante la propaganda di regime. In Discépolo, il martire spirituale del peronismo, si legge ancora oggi il grido del popolo che invoca il cambiamento negli anni in cui l’Argentina appariva venduta al governo britannico e le lotte proletarie rivendicavano la necessità di una totale trasformazione. Con quella di Discépolo si intreccia un’altra importante figura: Julian Centeya. Italiano “nato argentino” nel 1937 (il suo vero nome era Amleto Vergiati) invece visse il suo disagio in modo bohemienne, frequentando postriboli e dandosi all’alcol, ma ricordò spesso nei suoi versi la storia dei migranti (a partire dalla sua famiglia, che veniva da Parma) e la nostalgia degli sradicati. Lo chiamavano l’hombre gris de Buenos Aires, a indicare non il colore dell’anonimato, o della mediocrità, ma quello della pioggia che, malinconica, scende al mattino (yo canto en lunfa mi tristeza de hombre). Mentre Discépolo si ispirava ai grandi temi della letteratura russa, Julian si rifaceva allo spirito di Baudelaire e come i poeti maledetti aveva scelto la via dell’alcol, o, al massimo, atteggiamenti anarchici o nostalgici (Cafe dominguez/de la antigua calle Corrientes/de cuando era angosta y su gente/ se salutabade vereda en vereda).
Decisamente diversi furono gli atteggiamenti dei due di fronte al peronismo. Lo stesso Discepolo rimase solo, quando vide in Peròn l’uomo che avrebbe risollevato l’Argentina. Per radio Belgrano fu protagonista di una trasmissione, Pienso y digo lo que pienso che lo vide impegnato a propagandare il peronismo, attraverso le risposte date a un ipotetico antiperonista-Mosquidito- che avanzava obiezioni verso il governo. A proposito del nome scelto per il suo interlocutore nei dialoghi radiofonici, può riferirsi a quello che anni prima, nel 1947, sarebbero "gli uomini si dividono in due gruppi: quelli che mordono e quelli che si lasciano mordere” “Per Discépolo, che non era un politico, il peronismo era la possibilità di un cambiamento sociale” scrive Galasso, ma per i suoi vecchi amici -avversi all’autoritarismo del generale, che aveva ordinato diversi arresti di marxisti e socialisti-questo rappresentò un tradimento dei vecchi ideali di libertà. Questa presa di posizione gli costò molto cara. Tanta gente dell'ambiente artistico iniziò a voltargli le spalle. Gli amici lo abbandonarono, e lui rimase isolato. Da solo morì, a 51 anni, consumato dall’anoressia e dalla malinconia. Quattro anni dopo, il “suo” presidente veniva destituito in seguito a un colpo di Stato. Centeya invece visse fino al 1974, consumato dall’alcol, che gli aveva reso il cuore malato. Se volessimo cercare anche nella morte di due protagonisti della storia del Tango un modo per interpretarlo in maniera realistica, non potremmo non pensare che il significato di un tango va ben oltre i tre minuti della sua esecuzione. È qualcosa di molto più strutturato di una perfomance in milonga. È una poesia di storie che si sono intrecciate con la Storia, un modo come tanti di declinare il male di vivere dove l’essere umano è ancora protagonista nello scegliere quale.



lunedì 16 novembre 2015

Anche il Tango ha il suo Bataclan



Il Bataclan, oggi tristemente noto per il terribile attentato terroristico del 13 novembre  è un teatro di Parigi, situato sul Boulevard Voltaire. E 'stato costruito dall'architetto Charles Duval nel 1864 e, nonostante la sua storia movimentata che include un fallimento economico e diverse riforme, funziona ancora. Il suo nome si riferisce al Ba-Ta-Clan, il nome di un'operetta di Offenbach, ma l'origine è da attribuirsi alla parola Bataclan che in francese significa attrezzo complicato che non si sa a cosa serva o come funzioni (un cachivache in castillano).
Questo significato è quello che si attribuisce anche alle diverse altre repliche di quel famoso teatro che all'inizio del XX secolo, furono costruite a Buenos Aires. Il più nominato sarebbe appunto il teatro Bataclan nella zona del porto, dove ha iniziato la sua carriera 
nei primi anni 20, come cantante e come corista, l'indimenticabile Tita Merello. Dopo un po', forse per imitazione in gergo si definivano bataclanas tutte le cantanti e le ballerine di teatro, di rivista e di spettacolo in genere.

Nel Tango ci sono innumerevoli riferimenti a loro: " no soy una, soy montón, para cantar a mis hermanas: cantantes, bailarinas, bataclanas..." dice Susana Rinaldi recitando una brillante introduzione ad uno dei suoi tanghi.
Nel tango “Garufa” (1927, música di Juan Antonio Collazo), i suoi autori la utilizzano come sininimo di cantante pretenziosa e di successo

Nel barrio La Mondiola sos el más rana
y te llaman Garufa
por lo bacán;
tenés más pretensiones
que bataclana
que hubiera hecho suceso con un gotán…


Celedonio Flores in“Audacia” (1926, música de Hugo La Rocca) la dipinge come  «corista infelice»: 

Me han contado, y perdoname
que te increpe de este modo,
que la vas de partenaire
en no sé qué bataclán…

Infine .......ragazze che si guadagnano da vivere a modo loro.....
Purtroppo la parola ha assunto nel tempo il significato di "donna facile". In Cile ed in Columbia bataclana significa prostituta

Fonte: El francés en el tango, Proa Amerian Editores, 2011

 

 

domenica 5 aprile 2015

Leopoldo Federico: “El tango es mi vida misma”





Il 28 Dicembre 2014, è morto Leopoldo Federico, una delle massime figure del tango, aveva 87 anni.
Ne ha dato notizia la “Asociación Argentina de Intérpretes” (AADI), di cui il Maestro era presidente.
Col bandoneón, compagno di una vita, quasi parte del suo corpo, ha suonato con le più grandi orchestre, da Di Sarli a Piazzolla, da Salgán a Mariano Mores, oltre ad aver brillato di luce propria per più di 50 anni con la sua orchestra.
Nella maggior parte dei casi quando scrivo di un Maestro di tango, mi impelago nella ricerca bibliografica di fonti, che spesso risultano contradditorie e controverse, tanto che certe volte pare di raccontare una leggenda piuttosto che un fatto storico. Con Federico questo non succede, perché la sua storia la racconta lui stesso nelle decine di interviste rilasciate nel corso di 50 anni di carriera, tutte gelosamente catalogate e conservate dall’AADI.
E’ un piacere sentirlo raccontare delle sue origini, dei suoi amici e delle sue esperienze e mi si è aperto il cuore quando, in una recente intervista contenuta nel DVD Tango y Origen di Pedro Chemes (che fortunatamente posseggo….) sostiene che l’unico vero motivo del suo successo è stato un colpo di fortuna.
Proverò quindi a raccontarvi queste interviste un po’ come fa la RAI che manda per radio il racconto per “non vedenti” di alcune trasmissioni televisive. Vi racconterò di un uomo mite e umile che con grande rispetto e semplicità parla di tango così come un prete spiega il Nuovo Testamento ovvero a parabole.
Immaginatelo raccontare queste cose nella sua casa, in pantofole, con la camicia aperta per il caldo e gli occhiali spessi di sempre, seduto su una sedia di legno. Sugli scaffali della libreria, traboccanti di premi, ci sono molte foto con gli amici dell'ambiente del tango, quello del ’40, ma sono molte di più le foto con i suoi nipoti e pronipoti. Ha rappresentato la storia vivente del tango, soprattutto dagli anni ’50 ad oggi, ha fatto parte di una élite costituita da ben pochi artisti. Egli testimonia il vecchio e l'avanguardia, e la sua carriera sintetizza quasi tutte le correnti quelle tradizionali e le evoluzioniste. Ma soprattutto per il suo virtuosismo nell'interpretare il bandoneon, strappandosi le dita in ogni nota, Leopoldo Federico è uno dei musicisti iconici e fondanti il 2x4 in Argentina. E non possiamo che annuire quando afferma: "Il tango è la mia vita stessa”.

Nella nostalgica Buenos Aires della metà degli anni '30, nel quartiere Once, Federico ebbe un primo contatto con chi sarebbe stato il compagno di una vita: il bandoneon. Suo zio, che viveva in casa sua, senza quasi rendersi conto, lo introdusse alla musica rioplatense quando entrambi si sedevano per ascoltare la radio El Mundo e Belgrano. "Mi raccontava delle orchestre, e io non sapevo e non ne capivo niente, né tantomeno mi passava per la mente comprendere quella strana musica, avevo solo 10 anni", ricorda Leopoldo. Mentre i giorni passavano, quelle melodie rimanevano nella mente del giovane ed ogni volta migliorava la sua capacità di riconoscere le orchestre tanto da poter identificare la “personalità che i musicisti davano al bandoneon”. Non passò molto tempo fino a quando iniziò a prendere lezioni di musica con un insegnante amico di suo padre. “Ho iniziato con la teoria musicale e poi mi comprarono un bandoneon. Immediatamente mi entusiasmai per lo strumento”, ricorda. Suo zio fu di vitale importanza per i suoi inizi: “Non so perché ho studiato bandoneon, perché mi piaceva oppure per farlo contento”, dice sorridendo e bevendo un sorso d'acqua.

Leopoldo ricorda con nostalgia quei tempi, quando, a soli 17 anni gli dicevano “gordo” o “pibe”. Iniziò la sua carriera professionale, favorito da un periodo in cui la società stava respirando tango. Nella Avenida Corrientes, tra Callao ed il Bajo, i locali si riempivano di persone in cerca di milongas. Fin dai suoi inizi suonò nei cabaret, almeno in quelli in cui riusciva ad entrare vista la sua corporatura robusta, poiché non erano ammessi minori, racconta allegramente, poi cominciò la sua vertiginosa carriera suonando con maestri del calibro di Alfredo Gobbi, Victor D'Amario e Osmar Maderna. In seguito si unì all’orchestra di Mariano Mores, Hector Stamponi, Carlos Di Sarli, Lucio Demare, Horacio Salgán e Atilio Stampone. "Sono andato lentamente, ho cambiato molto spesso orchestra e da tutti imparato qualcosa", ricorda e umilmente, dice: "Sono stato fortunato."
Eccolo il colpo di fortuna di cui parlavamo prima: vivere in una società che respirava tango e collaborare con i più grandi di quel periodo. A meno di 30 anni, nel 1955, Leopoldo fu chiamato da Astor Piazzolla per sostituire Roberto Pansera in una delle formazioni più rivoluzionarie della storia del tango: l’Octeto Buenos Aires. Uno dei suoi sogni si era avverato, perché per Federico il miglior bandoneonista era Piazzolla. "Il sommo interprete” lo definì. Poi, con la sua orchestra accompagnerà Julio Sosa, fino alla sua morte nel 1964, e in quel periodo raggiunse raggiungere la fama e il riconoscimento su larga scala. "Dopo Julio Sosa ho preso il grande volo", ammette.
Fu proprio in quel periodo che con la sua orchestra viaggiò in tutto il mondo.
Tempo dopo forma un trio con il pianista Osvaldo Berlingieri ed il contrabbassista Fernando Cabarcos, noto come Trio Federico-Berlingieri-Cabarcos.

Quando Federico diventa nostalgico orienta lo sguardo verso il soffitto. Si nota che gli manca quel passato lontano nel tempo, ma così vivido nella sua memoria. Non ha paura di affermare "ciò che era meglio prima" e comincia a pensare. Tanti ricordi gli vengono in mente, prova a descrivere quello che significava la sua vita in quei decenni dal 1940 al 1970, i luoghi dove visse, gli odori di quei posti dove sentiva di tango di Buenos Aires, lontano da ogni moda straniera. Ricorda con gioia quei tempi in cui l'unico rumore udito nella notte di Buenos Aires era il bandoneon suonato da quei Maestri. "Ho tutto come un ricordo, come il più bello, ma che non ritornerà mai più," si lamenta con voce innocente e confessa: "Mi manca quando la gente fischiettava il tango per le strade”. “Il Tango è la mia stessa vita, non trovo altre parole per definirlo. È amore, è espressione. I testi sono poesie, che parlano delle verità di quel tempo. E il bandoneon è un'estensione dell'anima, il mio cuore e la verità è che ho la fortuna di vivere la musica e mi piace quello che faccio”.
Semmai qualcosa ha contraddistinto la brillante carriera di Federico è stato l’impeto nel momento in cui suonava. "Le note sono scritte, ma devono essere interpretate con sentimento" afferma e riconosce che non basta la tecnica per suonare uno strumento "la tecnica è meccanica, i concertisti sono macchine per fare le note, ma a me abbagliano quelli che giocano con emozione”. Ci sono cose nel tango non scritte e non dette, che cambiano tra una prova e l’altra. “Ma poiché noi musicisti siamo sciatti, non le correggiamo. È proprio lì che sta l’interpretazione”.

Sebbene Leopoldo sia ricordato come artista che ha combinato virtuosismo e passione, se è necessario definire il tuo stile si rifiuta di parlare di se stesso e preferisce nominare Pedro Laurenz o Pedro Maffia come due riferimenti di tango che possedevano entrambe le abilità.
Anche se è difficile da credere, il bandoneon di Leopoldo resta tutto il giorno in un angolo quasi abbandonato. “Ho la pessima abitudine di non suonare, io sono pigro. Quando da giovane studiavo lo strumento ero malato, stavo lì per ore e ore. I problemi fisici sono l'ostacolo principale per fare quello che uno vuole. Nonostante i dolori acuti, quando sono sul palco a suonare, cancello tutto della mente; Mi concentro tanto e lascio tutto da parte, non mi importa se fa male dopo".
Leopoldo, dice tutto ciò con uno sguardo sornione, consapevole dei lunghi anni ormai passati, e di quanto i tempi siano cambiati. Sostiene, infatti, che il tango prima era migliore solo come fonte di lavoro. I musicisti erano incoraggiati a fare grandi orchestre. Oggi molti musicisti per quanto siano migliori tecnicamente di quelli del passato sono costretti ad elemosinare la loro arte, data la crisi dell’industria discografica. Per quanto siano bravi non riescono a vivere di musica e tutto ciò fa male all’intero sistema.

Tra i numerosi premi che ricevette ci sono il premio Gardel ed il Grammy latino, per due volte. Fu anche dichiarato cittadino illustre della Città di Buenos Aires nel 2002. Quando, accompagnato da sua moglie Norma, ricevette due anni fa il premio Senador D. F. Sarmiento che la Camera alta concede "a persone fisiche o giuridiche che migliorino la qualità di vita degli abitanti e della sua comunità", riassunse la sua identità ed il suo atteggiamento di fronte alla vita: "Non dico se lo merito o non lo merito. La verità è che sono sempre stato al fianco di gente che mi ha insegnato tanto. Ho sempre avuto la fortuna che mi si avverassero i sogni: suonare con Horacio Salgán è stato un regalo del destino, Astor Piazzolla è “ l’insuperabile”, mi ricordo che con Julio Sosa volevamo ricominciare tutto dal principio per tornare a rifare le stesse cose."


sabato 2 agosto 2014

Hoy El Gordo Pichuco a cent'anni dalla nascita





Oggi mi è capitato tra le mani, anzi tra i bytes del mio computer uno spezzone di uno show di Anibal Troilo insieme al Polaco Goyeneche girato nel 1971 al Caño 14, noto cabaret di Buenos Aires. Interessante anche l'intervista al gestore del locale. Tutto sommato una buona occasione per "charlar" del Maestro.


Anibal Troilo, detto "El Gordo", Pichuco, el bandoneón mayor de Buenos Aires", il “Budda impomatato”. Forse solo Carlos Gardel ebbe più soprannomi di lui. Fu la figura del tango più amata dai suoi contemporanei e la più rispettata dalle nuove generazioni. Il suo lavoro comprende non solo le grandi creazioni, anche le interpretazioni sono pietre miliari nella storia della musica urbana di Buenos Aires. El Gordo "Pichuco" rappresenta un pezzo di storia non solo del tango, ma della stessa notte porteña.

La sua vita artistica che è coincisa con il periodo migliore del tango argentino ha regalato al mondo opere di tal livello, che hanno permesso di superare la visione del tango "con la rosa in bocca" e di far conoscere ed apprezzare l'"olor a tango" delle notti di Buenos Aires.

Il potere evocativo del suono del bandoneon di Troilo, il cosiddetto "singhiozzo" è tale da trasportare immediatamente l'ascoltatore a Buenos Aires, quantunque non vi sia mai stato. Era un frequentatore delle milonghe, un personaggio delle notti porteñe, sempre circondato, sebbene non avesse nobili origini, da quanto di meglio esprimesse la cultura argentina del tempo. Homero Manzi, José María Contursi, Enrique Cadicamo, Homero Exposito, Enrique Santos Discepolo erano suoi amici.