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sabato 9 luglio 2016

Tango e società: la Storia in un abbraccio di Mariagiovanna Ferrante



Cari lettori,
oggi abbiamo l'onore di ospitare un contributo "dotto" di Mariagiovanna Ferrante che analizza brevemente il particolare contesto socio-culturale dell'Argentina degli anni '50, ricordando al lettore quanto certe idee sul tango siano ancora attuali.
Grazie Mariagiovanna


Tango. Patrimonio dell’Unesco, danza passionale e/o triste, terapia fatta di abbracci. Negli ultimi anni questo ballo è stato interpretato in diversi modi, tutti più o meno validi, tutti più o meno vicini agli effetti che esso ha sull’individuo e, nel complesso, sulla comunità che vi si muove intorno. È, questo, il tempo in cui il tango, pur essendo definito un “ballo sociale”, tende a diventare il metro attraverso cui valutare “chi sa fare cosa”. In qualche milonga si assiste a vere e proprie performances di ballerini i quali, più che pensare ad abbracciarsi, sanno che qualcuno li sta guardando. Eppure, in milonga si va per condividere delle emozioni di coppia. Che sia una coppia reale o quella che si forma per dieci minuti. Il tempo di sognare. È il tempo dei raduni, dei festivals, delle maratone per quegli eletti che inseguono date e organizzatori per avere il privilegio di essere ammessi nei vari templi della bravura “senza se e senza ma”. Eppure….Eppure ogni tanto bisognerebbe tornare alle origini. Non si tratta di essere reazionari o laudatores temporis acti, ma occorrerebbe non dimenticare come nasce il tango e quale messaggio esso ha veicolato.
Esso non deve essere considerato semplicemente uno “svago”, o una “moda” che sta impazzando negli ultimi anni. Si tratta, piuttosto, del prodotto di un fenomeno di rilevante portata, all’interno del quale c’è la storia di individui che hanno dovuto affrontare la ricerca di una nuova patria e di una nuova identità. Occorrerebbe riflettere sui periodi più importanti dell’ondata migratoria (1810-1870 e 1876-1976), in cui, con motivi diversi e modalità differenti di arrivo, si spostò, secondo il rapporto della Caritas migrantes (2009), una quantità di persone superiore alla popolazione italiana al momento dell’unità nazionale. Gli italiani in Argentina affrontarono innumerevoli difficoltà, da quelle legate al mero trasporto (si viaggiava in condizioni spesso disumane, in situazioni di scarsa igiene e con facile insorgenza di malattie), alla diffidenza delle élites locali, che vedevano negli stranieri dei fattori di imbarbarimento, piuttosto che degli incentivi al progresso come prefigurato dai governi di Rivadavia o di Avellaneda (1876: legge sull’immigrazione). Si trattava di giudizi arbitrari, in virtù dei quali i più sospettati di essere dei criminali furono i meridionali, in particolare i napoletani. Questi furono oggetto di diffidenza, ma anche di dileggio da parte degli argentini. Basti pensare che nel poema epico Martin Fierro, presentato dal suo autore José Hernandez nel 1872, vi era una caricatura del napoletano, visto come piagnucolone e mollaccione, in netta contrapposizione con le virtù del gaucho. Quest’ultimo era simbolo di coraggio, generosità amicizia, mentre il “gringo” era rappresentato dal “papolitano”. Dei parassiti, insomma. Eppure…Eppure tra i nuovi arrivati e le masse della popolazione che era tenuta fuori dai giochi di potere, si creò una fusione tale che gli italiani rinacquero come argentini, e che i figli degli italiani dimenticarono presto le loro origini per abbracciare una nuova nazionalità. In fuga dai paesi d’origine per le persecuzioni o per le condizioni di miseria, al loro arrivo in un mondo sconosciuto e inospitale anche dal punto di vista politico, molti emigrati furono una sorta di “lievito sociale”, organizzatori e promotori di lotte contro la sopraffazione dei lavoratori. L’idea anarchica fece breccia nel proletariato italiano tutt’altro che rassegnato. I vincoli etnici tra lavoratori e gruppi intellettuali facilitarono la politicizzazione dei primi, senza che l’identità nazionale rimasta molto forte abbia escluso un’altrettanto solida “coscienza di classe”. La presenza degli italiani si fece sentire anche nella lingua: l’idioma di Buenos Aires fu fortemente contaminato dal cocoliche (una mescolanza a tutti gli effetti tra l’italiano dialettale, con il lessico gauchesco della Pampa e il castigliano rioplatense) e dal lunfardo (la lingua dei postriboli e degli emarginati, anch’essa piena di italianismi). Da quest’ultimo nasce il linguaggio del tango. La danza nacque in quel crogiolo culturale che è il Rio de la Plata, dove si incontrano culture e livelli sociali profondamente diversi fra loro. Tra questi, gli italiani portarono la loro passione musicale e l’attitudine al canto. La loro situazione non era semplice: la miseria e la disperazione facevano parte della quotidianità. La patria perduta, la famiglia abbandonata, in particolare la madre e moglie, sono sempre più dolorosi per l'uomo solo in Buenos Aires. Come ha sostenuto Sabato, "La crescita violenta e tumultuosa Buenos Aires, la speranza di milioni di esseri umani e la loro frustrazione, la nostalgia per la patria lontana, il risentimento dei nativi contro l'invasione, la sensazione di insicurezza e fragilità in un mondo trasformato vertiginosamente (...) Tutto ciò che si manifesta nella metafisica di tango”.

Il Tango nella sua musica, nelle sue parole e nei suoi movimenti riflette questo disagio. In questo contesto, appare esemplare la storia di Enrique Santos Discèpolo (figlio di un napoletano), colui al quale si deve la definizione di tango come “pensiero triste che si balla”. Definizione, questa, che ha avuto una sorte un po’ infelice, essendo stata relegata a un’interpretazione letterale e abbastanza semplificata, decontestualizzata. A lui si devono testi come Vachaché (¿Qué vachaché? /Hoy ya murió el criterio!/Vale Jesús lo mismo que el ladrón...), Yira Yira(Veràs che todo es mentira…) e Camabalanche (Todo es igual…Nada es mejor…), attraverso i quali il decennio infame, attraversato da colpi di stato e lotte proletarie, venne messo a nudo, nonostante la propaganda di regime. In Discépolo, il martire spirituale del peronismo, si legge ancora oggi il grido del popolo che invoca il cambiamento negli anni in cui l’Argentina appariva venduta al governo britannico e le lotte proletarie rivendicavano la necessità di una totale trasformazione. Con quella di Discépolo si intreccia un’altra importante figura: Julian Centeya. Italiano “nato argentino” nel 1937 (il suo vero nome era Amleto Vergiati) invece visse il suo disagio in modo bohemienne, frequentando postriboli e dandosi all’alcol, ma ricordò spesso nei suoi versi la storia dei migranti (a partire dalla sua famiglia, che veniva da Parma) e la nostalgia degli sradicati. Lo chiamavano l’hombre gris de Buenos Aires, a indicare non il colore dell’anonimato, o della mediocrità, ma quello della pioggia che, malinconica, scende al mattino (yo canto en lunfa mi tristeza de hombre). Mentre Discépolo si ispirava ai grandi temi della letteratura russa, Julian si rifaceva allo spirito di Baudelaire e come i poeti maledetti aveva scelto la via dell’alcol, o, al massimo, atteggiamenti anarchici o nostalgici (Cafe dominguez/de la antigua calle Corrientes/de cuando era angosta y su gente/ se salutabade vereda en vereda).
Decisamente diversi furono gli atteggiamenti dei due di fronte al peronismo. Lo stesso Discepolo rimase solo, quando vide in Peròn l’uomo che avrebbe risollevato l’Argentina. Per radio Belgrano fu protagonista di una trasmissione, Pienso y digo lo que pienso che lo vide impegnato a propagandare il peronismo, attraverso le risposte date a un ipotetico antiperonista-Mosquidito- che avanzava obiezioni verso il governo. A proposito del nome scelto per il suo interlocutore nei dialoghi radiofonici, può riferirsi a quello che anni prima, nel 1947, sarebbero "gli uomini si dividono in due gruppi: quelli che mordono e quelli che si lasciano mordere” “Per Discépolo, che non era un politico, il peronismo era la possibilità di un cambiamento sociale” scrive Galasso, ma per i suoi vecchi amici -avversi all’autoritarismo del generale, che aveva ordinato diversi arresti di marxisti e socialisti-questo rappresentò un tradimento dei vecchi ideali di libertà. Questa presa di posizione gli costò molto cara. Tanta gente dell'ambiente artistico iniziò a voltargli le spalle. Gli amici lo abbandonarono, e lui rimase isolato. Da solo morì, a 51 anni, consumato dall’anoressia e dalla malinconia. Quattro anni dopo, il “suo” presidente veniva destituito in seguito a un colpo di Stato. Centeya invece visse fino al 1974, consumato dall’alcol, che gli aveva reso il cuore malato. Se volessimo cercare anche nella morte di due protagonisti della storia del Tango un modo per interpretarlo in maniera realistica, non potremmo non pensare che il significato di un tango va ben oltre i tre minuti della sua esecuzione. È qualcosa di molto più strutturato di una perfomance in milonga. È una poesia di storie che si sono intrecciate con la Storia, un modo come tanti di declinare il male di vivere dove l’essere umano è ancora protagonista nello scegliere quale.



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