Cari lettori,
oggi abbiamo l'onore di ospitare un contributo "dotto" di Mariagiovanna Ferrante che analizza brevemente il particolare contesto socio-culturale dell'Argentina degli anni '50, ricordando al lettore quanto certe idee sul tango siano ancora attuali.
Grazie Mariagiovanna
Tango. Patrimonio dell’Unesco,
danza passionale e/o triste, terapia fatta di abbracci. Negli ultimi anni
questo ballo è stato interpretato in diversi modi, tutti più o meno validi,
tutti più o meno vicini agli effetti che esso ha sull’individuo e, nel complesso,
sulla comunità che vi si muove intorno. È, questo, il tempo in cui il tango,
pur essendo definito un “ballo sociale”, tende a diventare il metro attraverso
cui valutare “chi sa fare cosa”. In qualche milonga si assiste a vere e proprie
performances di ballerini i quali, più che pensare ad abbracciarsi, sanno che
qualcuno li sta guardando. Eppure, in milonga si va per condividere delle
emozioni di coppia. Che sia una coppia reale o quella che si forma per dieci
minuti. Il tempo di sognare. È il tempo dei raduni, dei festivals, delle
maratone per quegli eletti che inseguono date e organizzatori per avere il
privilegio di essere ammessi nei vari templi della bravura “senza se e senza ma”. Eppure….Eppure
ogni tanto bisognerebbe tornare alle origini. Non si tratta di essere
reazionari o laudatores temporis acti,
ma occorrerebbe non dimenticare come nasce il tango e quale messaggio esso ha
veicolato.
Esso non deve essere considerato
semplicemente uno “svago”, o una “moda” che sta impazzando negli ultimi anni.
Si tratta, piuttosto, del prodotto di un fenomeno di rilevante portata,
all’interno del quale c’è la storia di individui che hanno dovuto affrontare la
ricerca di una nuova patria e di una nuova identità. Occorrerebbe riflettere
sui periodi più importanti dell’ondata migratoria (1810-1870 e 1876-1976), in
cui, con motivi diversi e modalità differenti di arrivo, si spostò, secondo il
rapporto della Caritas migrantes (2009), una quantità di persone superiore alla
popolazione italiana al momento dell’unità nazionale. Gli italiani in Argentina
affrontarono innumerevoli difficoltà, da quelle legate al mero trasporto (si
viaggiava in condizioni spesso disumane, in situazioni di scarsa igiene e con
facile insorgenza di malattie), alla diffidenza delle élites locali, che
vedevano negli stranieri dei fattori di imbarbarimento, piuttosto che degli
incentivi al progresso come prefigurato dai governi di Rivadavia o di
Avellaneda (1876: legge sull’immigrazione). Si trattava di giudizi arbitrari,
in virtù dei quali i più sospettati di essere dei criminali furono i
meridionali, in particolare i napoletani. Questi furono oggetto di diffidenza,
ma anche di dileggio da parte degli argentini. Basti pensare che nel poema
epico Martin Fierro, presentato dal suo autore José Hernandez nel 1872, vi era
una caricatura del napoletano, visto come piagnucolone e mollaccione, in netta
contrapposizione con le virtù del gaucho. Quest’ultimo era simbolo di coraggio,
generosità amicizia, mentre il “gringo” era rappresentato dal “papolitano”. Dei
parassiti, insomma. Eppure…Eppure tra i nuovi arrivati e le masse della
popolazione che era tenuta fuori dai giochi di potere, si creò una fusione tale
che gli italiani rinacquero come argentini, e che i figli degli italiani
dimenticarono presto le loro origini per abbracciare una nuova nazionalità. In
fuga dai paesi d’origine per le persecuzioni o per le condizioni di miseria, al
loro arrivo in un mondo sconosciuto e inospitale anche dal punto di vista
politico, molti emigrati furono una sorta di “lievito sociale”, organizzatori e
promotori di lotte contro la sopraffazione dei lavoratori. L’idea anarchica
fece breccia nel proletariato italiano tutt’altro che rassegnato. I vincoli
etnici tra lavoratori e gruppi intellettuali facilitarono la politicizzazione
dei primi, senza che l’identità nazionale rimasta molto forte abbia escluso un’altrettanto
solida “coscienza di classe”. La presenza degli italiani si fece sentire anche
nella lingua: l’idioma di Buenos Aires fu fortemente contaminato dal cocoliche (una mescolanza a tutti gli
effetti tra l’italiano dialettale, con il lessico gauchesco della Pampa e il
castigliano rioplatense) e dal lunfardo
(la lingua dei postriboli e degli emarginati, anch’essa piena di italianismi).
Da quest’ultimo nasce il linguaggio del tango. La danza nacque in quel crogiolo
culturale che è il Rio de la Plata, dove si incontrano culture e livelli
sociali profondamente diversi fra loro. Tra questi, gli italiani portarono la
loro passione musicale e l’attitudine al canto. La loro situazione non era
semplice: la miseria e la disperazione facevano parte della quotidianità. La
patria perduta, la famiglia abbandonata, in particolare la madre e moglie, sono
sempre più dolorosi per l'uomo solo in Buenos Aires. Come ha sostenuto Sabato,
"La crescita violenta e tumultuosa
Buenos Aires, la speranza di milioni di esseri umani e la loro frustrazione, la
nostalgia per la patria lontana, il risentimento dei nativi contro l'invasione,
la sensazione di insicurezza e fragilità in un mondo trasformato vertiginosamente
(...) Tutto ciò che si manifesta nella metafisica di tango”.
Decisamente diversi furono gli atteggiamenti
dei due di fronte al peronismo. Lo stesso Discepolo rimase solo, quando vide in
Peròn l’uomo che avrebbe risollevato l’Argentina. Per radio Belgrano fu
protagonista di una trasmissione, Pienso
y digo lo que pienso che lo vide impegnato a propagandare il peronismo,
attraverso le risposte date a un ipotetico antiperonista-Mosquidito- che
avanzava obiezioni verso il governo. A proposito del nome scelto per il suo
interlocutore nei dialoghi radiofonici, può riferirsi a quello che anni prima,
nel 1947, sarebbero "gli uomini si
dividono in due gruppi: quelli che mordono e quelli che si lasciano mordere”
“Per Discépolo, che non era un politico,
il peronismo era la possibilità di un cambiamento sociale” scrive Galasso,
ma per i suoi vecchi amici -avversi all’autoritarismo del generale, che aveva
ordinato diversi arresti di marxisti e socialisti-questo rappresentò un
tradimento dei vecchi ideali di libertà. Questa presa di posizione gli costò
molto cara. Tanta gente dell'ambiente artistico iniziò a voltargli le spalle.
Gli amici lo abbandonarono, e lui rimase isolato. Da solo morì, a 51 anni,
consumato dall’anoressia e dalla malinconia. Quattro anni dopo, il “suo”
presidente veniva destituito in seguito a un colpo di Stato. Centeya invece
visse fino al 1974, consumato dall’alcol, che gli aveva reso il cuore malato.
Se volessimo cercare anche nella morte di due protagonisti della storia del
Tango un modo per interpretarlo in maniera realistica, non potremmo non pensare
che il significato di un tango va ben oltre i tre minuti della sua esecuzione.
È qualcosa di molto più strutturato di una perfomance in milonga. È una poesia
di storie che si sono intrecciate con la Storia, un modo come tanti di
declinare il male di vivere dove l’essere umano è ancora protagonista nello
scegliere quale.
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